“I libri pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive tra le nuvole” (Luigi Pirandello)
(di Raffaele Polo)
Ad una ambientazione particolarmente gradevole (il Salento degli anni Sessanta e seguenti), con storie e ministorie che si intrecciano, in un contesto di piacevolissima lettura, spolverato anche da momenti di sesso ‘hot’ (che non guastano mai nelle produzioni letterarie di maggior respiro….) questo ‘La famiglia di sabbia’ di Loredana Ruffilli esprime anche altre non meno importanti qualità. Prima fra tutte l’avvincente armonia con cui vengono dosati i passaggi tra i vari decenni e la non facile scelta di alternare considerazioni personali ed esistenziali alle cronachette circostanziate che riguardano i componenti della famiglia .
Un’opera di buon respiro, molto ben strutturata, che non scontenta anche il lettore più smaliziato, confermando l’ottima predisposizione letteraria della brava professoressa di lingue che apprezziamo senza meno per la sua riuscita veste di narratrice.
Certo, volendo proprio esaminare attraverso la lente del giudizio più severo il lavoro, pubblicato da Lupo Editore con la consueta copertina di buon gusto, si potrebbe sindacare che, anche in questo caso i clichets si rifanno ai più collaudati topoi: i cattivi sono facilmente identificabili e sempre più cattivi, condannati già dall’inizio dalla mano della scrittrice ad essere la parte negativa di tutte le storie. E invano i buoni hanno, ogni tanto, un timido risentimento e uno scatto di ira e di orgoglio. Sembra voler riecheggiare l’asserto che ‘gli ultimi restano ultimi’ e viene giocoforza pensare ai Malavoglia e a tutte le saghe meridionali fatte di sole mare ulivi e miseria. Ma, per la verità, la scelta narrativa della Ruffilli riesce a superare brillantemente tutti gli stereotipi. E i personaggi finiscono per piacere tutti, abbozzati come sono con pochi ma efficaci tratti, ad impersonificare luci e ombre di un mondo che non c’è più, è profondamente cambiato, ma in peggio.
Proprio su questa negativa considerazione ruota tutto il lungo racconto. E, in verità, non ci sentiamo di dar torto all’autrice, che rimpiange, sia pure con fermezza e senza indulgere in melanconici pietismi, i tempi andati. Dove tutto era più bello, più genuino, più colorato.
Probabilmente, viene da pensare, per scoprire che anche nella nostra grigia contemporaneità vi sono sprazzi di luce, bisognerà aspettare una trentina d’anni almeno. Allora, ma solo allora, qualche giovane contemporanea rimpiangerà il ‘magico’ primo decennio del nuovo secolo che, a tutt’oggi, non ci pare offra particolari, pregevoli aspetti.